Ho avuto il piacere di intervistare Roberto Pusole, volto giovane e determinato, che dell’amore per la propria terra ha fatto la sua ragione di vita. Insieme al fratello Lorenzo, senza il quale, come lui stesso ci dice, non si sarebbero potuti raggiungere certi risultati, gestisce l’azienda di famiglia ereditata da babbo Bernardo e mamma Emma. I suoi vini sono l’interpretazione sincera e diretta dell’Ogliastra che si affaccia sul mare. Di essi se n’è parlato e se ne parlerà ancora. Noi invece vogliamo dar spazio e far conoscere meglio il pensiero di un ragazzo che, inconsapevolmente per quanto mi riguarda, ha dato il via ad un possibile cambiamento per un’Ogliastra del vino che fino ad oggi ha parlato solo attraverso il lavoro delle grandi cantine sociali. Buona lettura!
Roberto, provieni da una famiglia che da generazioni ha fatto dell’agricoltura il proprio mestiere. Raccontaci cosa, dopo gli studi, ti ha spinto a proseguire questo cammino.
Per me fare l’agricoltore non è stato un obbligo o un’imposizione. Sono sempre stato libero di decidere, lo dimostra anche la scelta di frequentare lo scientifico e non l’agrario. La chiave di tutto è la mia Ogliastra. Essendoci nato e cresciuto, non ho mai pensato che la mia vita potesse essere lontana da qui. Guardandomi attorno alle scelte erano due: il turismo o l’agricoltura. L’industria, naturalmente, non l’ho mai presa in considerazione, perché per me è uno dei mali che ha colpito la Sardegna. Certamente il turismo sarebbe potuto essere una strada percorribile, ma venendo da generazioni di agricoltori la scelta è stata quasi spontanea. Inizialmente non ero a conoscenza dell’esistenza dell’università di Enologia, fino a quando il grande Enologo Enzo Biondo, cui devo dire grazie per questo, mi consigliò di andare a studiare ad Alba, facendo cosi del Piemonte uno dei momenti più importanti della mia vita.
Della tua esperienza in Piemonte cosa puoi raccontarci? Quali differenze significative ci sono con la realtà sarda?
Il Piemonte ha significato prima di tutto conoscere belle persone. Ci ho lasciato parte del mio cuore, per tanti motivi. Per quanto riguarda le differenze, posso dirti che la principale è che il lavoro di agricoltore in Piemonte è rispettato. Qui in Sardegna fare l’agricoltore o l’allevatore è ancora tuttora nell’immaginario comune un lavoro di serie B. Pensa che a mia mamma spesso chiedono cosa io stia facendo. Alla risposta “Roberto lavora in casa, in campagna” esclamano “ma non ha trovato altro?”. Insomma, l’agricoltura è vista come un ripiego quando invece è assolutamente il contrario: è l’essenza della nostra economia. In Sardegna siamo nella situazione in cui loro si trovavano 50 anni fa, ovvero nel declino dell’industria e ad un ritorno, seppur pallido, all’agricoltura. Occorrono persone che tornino ad amare questo mestiere, è fondamentale.
Prima ci hai parlato del legame forte con la tua Terra, l’Ogliastra, forse la zona più affascinante della Sardegna. Un vero e proprio amore…
Come ti ho detto prima, il legame con l’Ogliastra è profondo. E’ il motivo principale per il quale ho scelto questo mestiere. Il mestiere di viticoltore, rispetto ad altri lavori in campagna, è molto più legato al territorio. Se noi siamo in Ogliastra da generazioni è perché per la mia famiglia è stata una scelta di vita. Non potremmo riprodurre il nostro lavoro da altre parti, non potremmo fare il nostro Pusole ad Alghero, o Cagliari o Nuoro. Noi facciamo questo vino perché siamo figli del nostro territorio. Io amo l’Ogliastra, non me ne andrei per nessun motivo al mondo.
Parlaci del tuo lavoro in vigna. Qual è la tua filosofia produttiva ed il tuo approccio con la natura?
Il lavoro in vigna non è cambiato molto da quello che la mia famiglia ha fatto nel corso dei decenni. Quello che è stato fatto ultimamente è la razionalizzazione delle vigne. Le novità da me introdotte nello specifico sono sicuramente due: il diradamento (cosa non concepibile fino a pochi anni fa e che ha permesso di concentrare maggiormente gli aromi, non l’alcol sia chiaro, non confondiamo le due cose) e l’infittimento degli impianti per ettaro (che ha dato minor numero di grappoli ma di maggiore qualità). Per quanto riguarda il nostro approccio all’agricoltura in generale, bisogna ricordare che noi non siamo, nello specifico, viticoltori ma prima di tutto agricoltori. La differenza è importante. Credo che esista un ciclo in tutte le attività agricole e che sia tutto collegato: allevamento di animali da cortile, da macello, agricoltura intesa come orto che permetta l’auto sussistenza o le vigne che permettono di vendere il vino. Tutte cose in stretta connessione. Anche le parti non coltivate sono importanti. Il bosco e le piante spontanee, ad esempio, ci forniscono la legna. Naturalmente, sempre nel rispetto del loro ciclo vitale. A fare gli agricoltori non ci si finisce per caso, ma fa parte di una crescita e di un percorso culturale. È una scelta di vita! Per questo sono molto diffidente verso alcune scelte speculative che avvengono oggi. Per come siamo stati cresciuti dalle nostre famiglie, per il senso del lavoro e del sacrificio che ci è stato trasmesso, vedere, in alcuni casi, la Sardegna in svendita dispiace e fa male, sapendo che il nostro territorio e la natura sono la vera ricchezza.
Cosa ti affascina di più del tuo lavoro?
Tra le attività che facciamo, produrre vino è il nostro principale obiettivo. È davvero affascinante sapere che una volta imbottigliato, questo viaggerà e raggiungerà tutte le parti del mondo. Ti riempie di orgoglio sapere che c’è chi è interessato al nostro lavoro. A chi le stappa, poi, permetterà di compiere un viaggio al contrario. Una volta sorseggiato tornerà da noi, dove tutto è nato. Noi siamo i primi promotori del nostro territorio e ora riusciamo a raggiungere angoli che anni fa non avrei mai pensato. Questa è sicuramente la cosa più bella e gran motivo di soddisfazione.
Come definiresti i tuoi vini?
Li definisco “vini frutto dell’Ogliastra” e spero che questo sia quello che pensi chi beve Pusole.
Cosa pensi dell’omologazione e della ricerca ostentata di internazionalizzare i nostri vini da parte di alcuni produttori?
Ti rispondo ricollegandomi a quanto detto prima. Il territorio sardo è visto come speculazione da parte degli imprenditori. Quando il suolo non viene rispettato, si ha un approccio “mono- culturale” ed escono fuori dei vini, creati con soli obiettivi commerciali. E naturalmente li raggiungono! Vengono venduti e anche bevuti perché, alla fine, incontrano i gusti delle persone.
Io non ho sicuramente la pretesa di imporre il mio metodo di approccio culturale al territorio o al vino, né voglio insegnare com’è nato o come si dovrebbe bere. Penso che se uno voglia bere un cannonau che sa di Bordeaux, naturalmente lo possa fare. Se vuole bere un vermentino che sa di Sauvignon, faccia pure. Ma credo che alla fine menta a se stesso. Invito le persone a ritornare nelle piccole cantine per assaggiare il loro vino. Ci sono tantissimi bravi agricoltori. Veronelli diceva: “Il peggior vino del contadino è meglio del miglior vino industriale”. Io aggiungerei però “dei contadini che lo sanno fare”. Andate a riscoprire i veri sapori!
Il complimento migliore che mi è stato fatto, anche di recente, per il nostro rosato, è che questo “ricorda qualcosa”. Il vino deve farci ricordare un momento della nostra vita. Non deve far ricordare l’ananas di non so dove, ma il sapore della nostra terra.
In Ogliastra sei un caso unico: un piccolo produttore, tra alcune delle più importanti cantine sociali della Sardegna, che vuole raccontare a modo suo il proprio territorio. Come mai non si riesce a dare il via ad un fenomeno come quello di Mamoiada, che negli anni è riuscita a farsi conoscere attraverso il successo dei piccoli produttori?
Non sono un caso unico in Ogliastra. Sicuramente sono il primo che ha deciso di mettersi in proprio qui a Baunei, ma in zona ci sono tantissime altre piccole cantine molto valide che vanno scoperte. Quello che è accaduto a Mamoiada è cominciato 30 anni fa con il fallimento della cantina sociale. Da quel momento tutti i produttori si sono tirati su le maniche e hanno lavorato sodo. In Ogliastra le cantine sociali sono ancora in piena attività e ricoprono un ruolo centrale nel cooperativismo. Questo è molto importante perché permette di dar voce a tutti i viticoltori. Ma son certo che anche da noi, presto, ci saranno delle novità.
Che rapporto hai con gli altri produttori sardi? Dicci la tua sul mondo del vino in Sardegna.
Mah, ti dirò che con gli altri produttori, almeno con quelli che conosco personalmente, ho un buon legame. Mi vengono in mente Alessandro Dettori e Fabio D’Uffizi delle Tenute Dettori, Pietro Lilliu, Renato Spanu di Jankara, Columbu. Siamo in tanti ed è dura mantenere un contatto sempre diretto. La Sardegna è grande ed è difficile raggiungersi. Diciamo che per lo più li mantengo con chi segue una certa filosofia produttiva. Poi, logico, non tutti siamo uguali. Ognuno fa le sue scelte, chi più estremiste, chi meno. Io non tendo né a dividere, né a escludere, anzi vorrei che le occasioni di dialogo aumentassero. Occasioni come il Siddi Wine Festival dove ho trovato un bell’ambiente e ho avuto l’opportunità di scoprire nuove realtà come una nuova cantina di ragazzi giovani di Donori, Sa Defenza, che con il loro lavoro cercano di portare avanti ciò che hanno ereditato. Sono tante, soprattutto le nuove realtà e per questo sono contento. Ciò che mi spaventa sono quelle cantine che fanno vino semplicemente per far soldi. Il commercio del vino non deve avere come scopo principale il guadagno, ma la crescita del territorio. Crescita che deve partire dalla promozione dello stesso. A me, che tu ci metta del cabernet o del merlot o altri vitigni francesi per renderli più morbidi non interessa. Credo che, se non ti ritrovi nel terroir e in ciò che esso produce naturalmente, tu debba scegliere un altro lavoro. Se vuoi fare il commerciale, fai il commerciale. Ma sei vuoi fare il viticoltore, vai in vigna e lavoraci tutti i giorni.
Quanto è importante la comunicazione nel mondo del vino e cosa, secondo te, si dovrebbe fare per promuovere al meglio le nostre realtà produttive?
È un aspetto importante, soprattutto quando ci confrontiamo con l’estero. Bisognerebbe comunicare in modo più unito. Non si è ancora riusciti a creare un’unione seria e sincera. Noi facciamo si parte del consorzio tutela del cannonau, ma ci sono realtà molto più grandi di noi. Quello che manca è un gruppo di viticoltori che lavorano in un certo modo, che parlano la stessa lingua agricola, con il quale portare avanti il nome della Sardegna. Al momento, si commette ancora l’errore di suddividere troppo. All’estero dobbiamo uscire compatti, uniti. Poi, solo successivamente uno può scoprire le singole cantine. Dividendo anche le spese, sarebbe tutto più facile, anche fare tante fiere. Ma ognuno dovrebbe parlare di tutti. Non bisogna essere campanilisti, perché è buono il vino in Ogliastra, è buono il vino nel Campidano, nel Sulcis, nell’Oristanese, nel Sassarese, nel Nuorese, in Gallura… è buono tutto! Ma parliamo di Sardegna, il resto viene dopo.
Noi non abbiamo ancora la possibilità di andare all’estero per promuovere la nostra realtà, quindi per il momento aspetteremo quelli che avranno la volontà ed il desiderio di arrivare qui da noi, a Baunei.
Ultimissima domanda. Oltre che di vino, sappiamo che sei anche un allevatore di suini di pura razza sarda. Qual è il segreto del tuo buonissimo prosciutto?
L’allevamento dei nostri maiali è incrementato da quando abbiamo scoperto che un mio nipote aveva delle allergie causate da aromi e conservanti. Insomma, da ciò che è riconducibile ai prodotti industriali. Non si trovavano dei salumi che potesse mangiare, quindi abbiamo cominciato a produrne un po’ di più. Questo 10 anni fa. Da lì ci siamo detti “non escono male, perché non aumentiamo la produzione?”. Ad ogni modo resta un allevamento molto piccolo; se riusciamo a macellare 30 maiali all’anno è tanto!
C’è molto lavoro, ma ricordiamoci che in Sardegna manca la produzione. Se volessimo mangiare solamente suini di razza sarda o maiali allevati in Sardegna non c’è abbastanza materia prima a disposizione perché è sempre una lotta al ribasso, sempre una lotta basata sul prezzo. Invece bisognerebbe guardare la qualità della carne. Qualità che ritroviamo a partire dai seminativi che diamo loro da mangiare (orzo, grano, carrube delle piante dei nostri terreni), ma anche nel modo in cui facciamo vivere gli animali. I nostri, ad esempio, possono passeggiare perché sono in uno stato di “semi” brado. Purtroppo, visti i problemi dovuti alla peste suina, ci viene imposto di evitare il brado. Sempre meglio che rinchiusi!
Io dico sempre che non ho problemi a far vedere il mio allevamento di maiali. Ma quelli che hanno un allevamento intensivo farebbero lo stesso? Io non credo!
E non ci crediamo nemmeno noi…
Grazie Roberto per la tua disponibilità!
Di Mario Josto D’Ascanio